giovedì 30 giugno 2016
acasadiframe: C'è una donna che... Lucia Marilena Ingranata - Si...
acasadiframe: C'è una donna che... Lucia Marilena Ingranata - Si...: 22 anni (il circo delle pulci) C’è una donna che addomestica le pulci e ride, ride insonne e salta, salta sopra il letto tutti smet...
Le cave
di Giacomo Colosio
Nelle cave di marmo... lectio magistralis
Se andate a visitare una cava, la prima impressione che avrete è quella di essere in un luogo infernale, abitato da diabolici pazzi senza un briciolo di cervello. Ed invece anche lì potete trovare qualcuno che vi insegna qualcosa, anche se siete dei professoroni. Beh certo, a far brillare un candelotto di dinamite vi insegnano senza dubbio, ma non solo...io per esempio ho imparato a “cubare “ gli oggetti e poter in questo modo ricavarne una valutazione attendibile del loro peso. A cosa serve tutto ciò? Potrei fare una infinità di esempi riportando tutte le volte che ho applicato nella realtà quotidiana questo metodo ingegnoso.
« Ingegnere, ha visto la polizia davanti alla pesa di Botticino mentre veniva su al mèdol? »
Il mèdol, in dialetto locale, è la cava di marmo, anzi di pietra calcarea, perché questa è la classificazione del Botticino classico.
Io ero il proprietario, insieme a mio fratello, e quindi avevo interesse a seguire il suo ragionamento.
« Sì...perché volevi saperlo, Adelino? » risposi.
« Normale, per non far prendere la multa all'autista...quel povero cristo deve pagare le rate del camion, e ha famiglia. Se passa i duecento quintali lo rovinano »
Come fare, pensavo io...di blocchi di marmo ce n'erano tanti, ma come conoscere il loro peso prima di essere arrivati giù alla pesa?
Intanto Adelino girava la cava alla ricerca di un “informe” da caricare. L'informe, che nel modo di parlare del capo cava e degli altri cavatori diventava impropriamente “l'uniforme”, è un masso non completamente squadrato ma appunto informe, senza forma solida ben definita. Le vere sembianze del blocco di marmo, un quasi perfetto parallelepipedo, le prenderà in laboratorio dopo l'asportazione con un telaio mono lama al diamante delle parti in eccesso rispetto alla forma ottimale...in gergo si dice anche che si devono levare le “croste”.
« Questo... va bene questo, Paletti... sarà centonovanta quintali, non di più »
Paletti ovviamente era l'autista di turno, padroncino.
Centonovanta quintali, pensavo io... e come fa a dirlo. Avevo voglia di sfotterlo un po', Adelino, il dio indiscusso della cava, ed allora attaccai a parlare vagamente in falsetto, come fanno certi architetti di città...
« Mah, per me sono anche centonovantadue i quintali...chilo più chilo meno... »
Adelino si voltò di scatto. Fumava, anche se le sigarette le aveva buttate vent'anni prima; colpa di un'ulcera gastrica.
Capii che non aveva digerito la battuta perché si rivolse a me dandomi del tu, cosa che mi sarebbe piaciuta da sempre ma che non rientrava nelle sue abitudini.
« Senti, ragazzo...mi vuoi prendere per il culo?...non ci credi che pesa centonovanta quintali, vuoi metterci su qualche palanca? »
Sorrisi, non potevo far altro. Dovevo trovare una frase conciliante, e la trovai...
« No no Adelino, non mi piace perdere...e che scommetto...son mica scemo »
« Allora vuoi sapere come faccio a pesarlo con la testa, giusto? »
Intelligente l'uomo...proprio lì volevo parare. Ma avevo voglia anche di punzecchiarlo...ero o non ero io il capo del capo cava?
« Certo... a meno che mi racconti fesserie »
« Sarebbe la prima volta...mai raccontato fesserie, non le conosco nemmeno queste favole »
Fu così che venni a sapere che Adelino, senza conoscere esattamente il concetto di peso specifico e nemmeno come si calcola il volume di un solido che non sia un parallelepipedo - cubo, a suo modo di intendere -, riusciva a trovare il peso di ogni blocco squadrato o informe presente nel deposito della cava.
La sua unica conoscenza era questa: un metro cubo di marmo di Botticino pesa ventotto quintali. Quando me lo disse, io risposi, lesto:
« Ah, il marmo quindi ha peso specifico 2,8... non lo sapevo »
« Neanch'io lo sapevo...cos'è il peso specifico? »
Ma, e qui sta il metodo, oltre a sapere che ogni metro cubo di pietra sono ventotto quintali, si deve procedere ad una fantasiosa “cubatura”, vale a dire un tentativo mentale di “quadrare” l'informe togliendo e mettendo pezzi di marmo nei punti giusti.
L'ideale è fare in modo che davanti a noi si presenti una faccia di un metro quadrato, poi dobbiamo “immaginare” la lunghezza che ne risulta facendo tutti quei taglia e cuci immaginari dei quali prima accennavo. Non sempre però abbiamo un perfetto metro quadrato davanti agli occhi...
Ecco la frase ed il ragionamento che fece Adelino quel giorno per “pesare” i centonovanta quintali di blocco.
« Qui davanti ho un metro e mezzo abbondante per un metro e mezzo...faccio il quadrato che sarebbe due e venticinque, abbondo un po' e quindi due e quaranta. La lunghezza è quasi tre metri, quindi vengono circa sette metri cubi. Potrei fare sette per trenta cioè duecento dieci quintali, ma invece è sette per ventotto, quindi quasi il dieci per cento in meno cioè venti quintali in meno quindi centonovanta quintali...content? »
Contento?...non solo, ero anche sbalordito...imparai al volo e da quel giorno, conoscendo pure i pesi specifici dei vari materiali, cominciai ad allenarmi su qualunque tipo di macchinario, oggetto, animale.
Sì, anche animali...quella volta che fummo avvicinati da un cetaceo nei mari dell'Isola d'Elba, ebbi modo di pesare con gli occhi quella bestia che ci passò accanto sollevando l'enorme coda, a soli cinque metri dal nostro barchino.
Feci questo calcolo...escludendo la coda l'esemplare era almeno otto metri, come la nostra barca, forse qualcosa in più. Cubandola poteva essere di circa un metro quadro per otto metri, appunto...poco più poco meno. Il suo peso specifico non è lontano dall'unità...un po' più di uno quando scarica aria e va a fondo, un po' meno in superficie...morale della favola otto metri cubi per dieci quintali al metro cubo( mille chili) fanno ottanta quintali, vale a dire 8 tonnellate.
Luigi, Mario Dodde, Raffaellino, Scorfanone, vale a dire i miei amici pescatori di Porto Azzurro, mi guardavano come uno spettro, mentre facevo questi conti.
Tranne Luigi, detto l'attore, che invece capì al volo...ed il motivo c'è, preciso come un orologio svizzero. Ma questa è un'altra storia.
********************
Epitteto Eubulide: Continuano le prolusioni scientifico-didattico-letterarie del nostro tecnico per antonomasia.
Sì lo so, egli potrebbe accreditarsi in e-book e/o in cartaceo, lucrando benefici economici.
Lui stesso ha ammesso candidamente altrove di esser stato proiettato in facebook per ragioni di marketing.
Poi però lo vediamo qui ricredersi per un sapere free erga omnes, il solo pel quale vale la pena di spendersi.
Se anche uno solo dei lettori avrà così modo di migliorarsi culturalmente, le ragioni di tanto vivere non saranno state vane.
Grazie assai, Vercingetorige.
di Giacomo Colosio
Nelle cave di marmo... lectio magistralis
Se andate a visitare una cava, la prima impressione che avrete è quella di essere in un luogo infernale, abitato da diabolici pazzi senza un briciolo di cervello. Ed invece anche lì potete trovare qualcuno che vi insegna qualcosa, anche se siete dei professoroni. Beh certo, a far brillare un candelotto di dinamite vi insegnano senza dubbio, ma non solo...io per esempio ho imparato a “cubare “ gli oggetti e poter in questo modo ricavarne una valutazione attendibile del loro peso. A cosa serve tutto ciò? Potrei fare una infinità di esempi riportando tutte le volte che ho applicato nella realtà quotidiana questo metodo ingegnoso.
« Ingegnere, ha visto la polizia davanti alla pesa di Botticino mentre veniva su al mèdol? »
Il mèdol, in dialetto locale, è la cava di marmo, anzi di pietra calcarea, perché questa è la classificazione del Botticino classico.
Io ero il proprietario, insieme a mio fratello, e quindi avevo interesse a seguire il suo ragionamento.
« Sì...perché volevi saperlo, Adelino? » risposi.
« Normale, per non far prendere la multa all'autista...quel povero cristo deve pagare le rate del camion, e ha famiglia. Se passa i duecento quintali lo rovinano »
Come fare, pensavo io...di blocchi di marmo ce n'erano tanti, ma come conoscere il loro peso prima di essere arrivati giù alla pesa?
Intanto Adelino girava la cava alla ricerca di un “informe” da caricare. L'informe, che nel modo di parlare del capo cava e degli altri cavatori diventava impropriamente “l'uniforme”, è un masso non completamente squadrato ma appunto informe, senza forma solida ben definita. Le vere sembianze del blocco di marmo, un quasi perfetto parallelepipedo, le prenderà in laboratorio dopo l'asportazione con un telaio mono lama al diamante delle parti in eccesso rispetto alla forma ottimale...in gergo si dice anche che si devono levare le “croste”.
« Questo... va bene questo, Paletti... sarà centonovanta quintali, non di più »
Paletti ovviamente era l'autista di turno, padroncino.
Centonovanta quintali, pensavo io... e come fa a dirlo. Avevo voglia di sfotterlo un po', Adelino, il dio indiscusso della cava, ed allora attaccai a parlare vagamente in falsetto, come fanno certi architetti di città...
« Mah, per me sono anche centonovantadue i quintali...chilo più chilo meno... »
Adelino si voltò di scatto. Fumava, anche se le sigarette le aveva buttate vent'anni prima; colpa di un'ulcera gastrica.
Capii che non aveva digerito la battuta perché si rivolse a me dandomi del tu, cosa che mi sarebbe piaciuta da sempre ma che non rientrava nelle sue abitudini.
« Senti, ragazzo...mi vuoi prendere per il culo?...non ci credi che pesa centonovanta quintali, vuoi metterci su qualche palanca? »
Sorrisi, non potevo far altro. Dovevo trovare una frase conciliante, e la trovai...
« No no Adelino, non mi piace perdere...e che scommetto...son mica scemo »
« Allora vuoi sapere come faccio a pesarlo con la testa, giusto? »
Intelligente l'uomo...proprio lì volevo parare. Ma avevo voglia anche di punzecchiarlo...ero o non ero io il capo del capo cava?
« Certo... a meno che mi racconti fesserie »
« Sarebbe la prima volta...mai raccontato fesserie, non le conosco nemmeno queste favole »
Fu così che venni a sapere che Adelino, senza conoscere esattamente il concetto di peso specifico e nemmeno come si calcola il volume di un solido che non sia un parallelepipedo - cubo, a suo modo di intendere -, riusciva a trovare il peso di ogni blocco squadrato o informe presente nel deposito della cava.
La sua unica conoscenza era questa: un metro cubo di marmo di Botticino pesa ventotto quintali. Quando me lo disse, io risposi, lesto:
« Ah, il marmo quindi ha peso specifico 2,8... non lo sapevo »
« Neanch'io lo sapevo...cos'è il peso specifico? »
Ma, e qui sta il metodo, oltre a sapere che ogni metro cubo di pietra sono ventotto quintali, si deve procedere ad una fantasiosa “cubatura”, vale a dire un tentativo mentale di “quadrare” l'informe togliendo e mettendo pezzi di marmo nei punti giusti.
L'ideale è fare in modo che davanti a noi si presenti una faccia di un metro quadrato, poi dobbiamo “immaginare” la lunghezza che ne risulta facendo tutti quei taglia e cuci immaginari dei quali prima accennavo. Non sempre però abbiamo un perfetto metro quadrato davanti agli occhi...
Ecco la frase ed il ragionamento che fece Adelino quel giorno per “pesare” i centonovanta quintali di blocco.
« Qui davanti ho un metro e mezzo abbondante per un metro e mezzo...faccio il quadrato che sarebbe due e venticinque, abbondo un po' e quindi due e quaranta. La lunghezza è quasi tre metri, quindi vengono circa sette metri cubi. Potrei fare sette per trenta cioè duecento dieci quintali, ma invece è sette per ventotto, quindi quasi il dieci per cento in meno cioè venti quintali in meno quindi centonovanta quintali...content? »
Contento?...non solo, ero anche sbalordito...imparai al volo e da quel giorno, conoscendo pure i pesi specifici dei vari materiali, cominciai ad allenarmi su qualunque tipo di macchinario, oggetto, animale.
Sì, anche animali...quella volta che fummo avvicinati da un cetaceo nei mari dell'Isola d'Elba, ebbi modo di pesare con gli occhi quella bestia che ci passò accanto sollevando l'enorme coda, a soli cinque metri dal nostro barchino.
Feci questo calcolo...escludendo la coda l'esemplare era almeno otto metri, come la nostra barca, forse qualcosa in più. Cubandola poteva essere di circa un metro quadro per otto metri, appunto...poco più poco meno. Il suo peso specifico non è lontano dall'unità...un po' più di uno quando scarica aria e va a fondo, un po' meno in superficie...morale della favola otto metri cubi per dieci quintali al metro cubo( mille chili) fanno ottanta quintali, vale a dire 8 tonnellate.
Luigi, Mario Dodde, Raffaellino, Scorfanone, vale a dire i miei amici pescatori di Porto Azzurro, mi guardavano come uno spettro, mentre facevo questi conti.
Tranne Luigi, detto l'attore, che invece capì al volo...ed il motivo c'è, preciso come un orologio svizzero. Ma questa è un'altra storia.
********************
Epitteto Eubulide: Continuano le prolusioni scientifico-didattico-letterarie del nostro tecnico per antonomasia.
Sì lo so, egli potrebbe accreditarsi in e-book e/o in cartaceo, lucrando benefici economici.
Lui stesso ha ammesso candidamente altrove di esser stato proiettato in facebook per ragioni di marketing.
Poi però lo vediamo qui ricredersi per un sapere free erga omnes, il solo pel quale vale la pena di spendersi.
Se anche uno solo dei lettori avrà così modo di migliorarsi culturalmente, le ragioni di tanto vivere non saranno state vane.
Grazie assai, Vercingetorige.
mercoledì 29 giugno 2016
E' T E M P O
di Epitteto
E' tempo si faccia il conto:
ognun del suo vissuto
i fatti enumerati.
Conchiusa è la stagione.
E' tempo si chiuda il conto:
il fatto e l'incompiuto
entrambi soppesati.
Conchiusa è la stagione.
E' tempo di render conto:
l'amore ed il rifiuto
in cielo giudicati.
Conchiusa è la stagione.
di Epitteto
E' tempo si faccia il conto:
ognun del suo vissuto
i fatti enumerati.
Conchiusa è la stagione.
E' tempo si chiuda il conto:
il fatto e l'incompiuto
entrambi soppesati.
Conchiusa è la stagione.
E' tempo di render conto:
l'amore ed il rifiuto
in cielo giudicati.
Conchiusa è la stagione.
Siddharta - Bianconeve - versione integrale - narrativa - biografia
a
Bianconeve senza i nani :
istoria in prosa senza pretese letterarie di un Lazzarillo di provincia.
di
Siddharta
2/05/2013
etichetta: la stanza di Siddharta
Prima parte
In un Regno vicino, poi diventato
Repubblica, viveva Bianconeve senza i nani. Era un bambino piccino piccino,
dagli occhi grandi e dal cuore tenero. Il suo Papà Cattivone l'aveva messo
nelle mani della Pecoraia, una donna ignorante e manesca. La Pecoraia
probabilmente era l'amante del Papà Cattivone, ma Bianconeve allora non poteva
saperlo.
Perchè la Pecoraia da bambina accudiva un
gregge in montagna, ma un giorno la mandarono a servizio in casa di Papà
Cattivone. Lei aveva meno di diciassette anni, mentre lui viaggiava sulla
trentina o poco più.
E si sa come vanno a finire queste cose:
passa un giorno, passa l'altro e finirono a letto. Lei dalla pelle di pesca, lui
dal portafoglio pieno.
La sgualdrina subito fiutò l'affare: invece
di fare la pastora era più conveniente fare la padrona. Lui però, scapolone
impenitente, a quei tempi non cedette alle lusinghe matrimoniali: era un medico
affermato dal futuro promettente, lei un'astuta ignorante, cosa che però non
poteva immaginare...
E da qui nacque l'avventura di Bianconeve
miserello, un Lazzarillo di provincia che il destino aveva segnato.
Avvenne che il Papa' Cattivone fosse nato
in un'amena cittadina del sud, oggi dichiarata Patrimonio dell'umanità. Si
trasferì poi con la famiglia nel capoluogo, ove durante la seconda guerra
mondiale sbarcarono le truppe alleate.
Suo padre, cioè il nonno di Bianconeve, era
un colonnello dei Carabinieri, e per avventura padre e figlio si trovarono
entrambi al fronte nella guerra '15-'18. I loro rapporti dovettero essere
conflittuali, perchè Papà Cattivone ne fece sempre accenni fugaci.
Fatto sta che negli anni giusti visse una
condotta medica in un paese del nord, da dove più non si mosse. Quivi, in pieno
regime dittatoriale (ma a suo dire rivestì raramente l'orbace), volando di
fiore in fiore incappò nella madre del pischello.
Donna bellissima, si buccinava, dagli occhi
verdi di ghiaccio.
Di ghiaccio anche il cuore, tanto che
quando Bianconeve nacque ella pensò bene di non riconoscerlo, abbandonandolo.
In quel torno di tempo, Papà Cattivone si
era dato ad una vita di baldoria...
Un giorno, dopo aver mangiato un'intera
anguria da solo in un chiosco locale (tutti se ne meravigliarono...), fu colto
da grave colica, fin quasi da morirne. Siccome era un gran devoto, secondo gli
usi della sua terra, fece voto solenne alla Madonna di Pompei che se fosse
guarito avrebbe riconosciuto Bianconeve come suo figlio legittimo.
Detto fatto, fu accontentato e lui mantenne
fede al giuramento. La storia del Lazzarillo senza i nani praticamente iniziò
qui.
Papà Cattivone, già imbranato con la sua
Pecoraia lolita, pensò bene allora di affidare il neonato ad una sua sorella
(che d'ora in avanti verrà chiamata Fata Turchina, perchè tale si dimostrò)
residente in città, già sposata con due figli. Così da guadagnare tempo e
decidere sul da farsi.
Papà Cattivone, da sospettoso quale era, si
affidò però anche ad un investigatore privato per saperne di più sulla madre
snaturata da lui scopata nove mesi prima.
Dalle carte venne fuori che la <
signorina > era conosciutissima in riviera lacustre, e forse anche come una
delle spasimanti del Rapagnetta nazionale. Fatto sta che da allora ogni loro
rapporto si interruppe: ognuno per la sua strada. Bianconeve crebbe i suoi
primi anni in casa della Fata Turchina, con suo marito (zio Ciccio) ed i due
cuginetti più grandi di lui.
Furono gli anni più belli.
Bianconeve non ricordò mai d'avere avuto
uno scapaccione o una punizione solenne. In casa zio Ciccio ogni tanto lo
chiamava < il ferroviere >, non si sa perchè, ma senza cattiveria.
Poi giunse la guerra. Zio Ciccio partì per
il fronte francese, la bocca a orciolo... La Fata Turchina rimase sola coi
figlioletti e Bianconeve.
Tempi duri, da fame, malgrado l'aiuto di
mantenimento di Papà Cattivone. Non c'era cibo, il pane ed altro tesserati,
bisognava arrangiarsi. La Fata Turchina ogni tanto poneva delle briciole di
pane in fila dal poggiolo alla cucina. I colombi entravano beccando ed i
ragazzini nascosti < pam! > chiudevano la porta- finestra facendoli
prigionieri. Svolazzavano per tutta la cucina, ma una volta catturati la zia li
annegava sotto il rubinetto del secchiaio, tra l'orrore dei bambini.
Ma zitti, tutti zitti, che il vicinato non
sapesse...
Era cosa proibita dalle Autorità, ma
Bianconeve non ne sapeva il perchè!
Intanto la guerra era quasi al suo apogeo.
Le bombe alleate piovevano sulla città con l'obiettivo di far saltare le
fabbriche convertite in produzione di guerra ed i nodi ferroviari.
Al piccino Bianconeve piacevano tanto gli
spezzoni incendiari ed i bengala per le loro luci notturne che illuminavano gli
orizzonti tutt'intorno.
Con la gente in strada che naso all'insù
sottovoce commiserava quei poveretti presi di mira dai bombardieri.
Gli piacevano molto anche le formazioni dei
quadrimotori che, in successione, solcavano il cielo dirette al nord per
sganciare i loro carichi di morte.
I curiosi, tra il contento ed il
preoccupato, mormoravano che andavano a rendere la pariglia a certi cattivi,
che però Lazzarillo non aveva mai visto.
Lo stupivano anche le scritte sui muri <
rifugio antiaereo > che spiccavano in grande con la freccia direzionata
verso le bocche di lupo alla base del palazzo ove abitava.
Un terrore invincibile lo prendeva quando
le sirene d'allarme ululavano sulla città. Allora bisognava uscire di corsa
sulle scale, precipitandosi tra una folla in fuga, e rintanarsi negli
scantinati.
Quando le bombe scoppiavano fragorose
facendo tremare le fondamenta, gli prendeva un'ansia profonda per il timore di
morire sotto le macerie.
Il rifugio gli sembrava una trappola per
topi.
Appena scesi nel sotterraneo, c'erano degli
animosi che cercavano di farsi e fare coraggio scherzando con la voce rotta
dalla paura. Ma ai primi scoppi tutti zittivano d'improvviso e movevano silenti
le labbra, chi in preghiera, chi coprendo con le braccia i piccini, chi
stringendosi l'uno con l'altro.
Mentre la guerra imperversava, i monelli
del quartiere si davano un gran daffare per divertirsi e passare il tempo.
Il gioco più praticato era quello del
carrettino di legno a tre ruote con cuscinetti a sfere ( anzi un semplice
assone con tanto di manubrio per sterzare: una tecnologia avanzatissima...),
col quale si facevano delle sfide memorabili per superarsi in curve a gomito.
Essendo eternamente il più piccino,
Bianconeve non ne possedeva uno, ma lui tifando per gli altri era come se
l'avesse avuto.
Le gare si facevano lungo i viali pubblici
e le strade periferiche della città, ma i vigili non volevano per il gran
fracasso e il pericolo per i passanti. E allora appena comparivano, tutti a
scappare a gambe levate. I più ardimentosi si cimentavano anche col carburo. Lo
mettevano in scatolette chiuse aggiungendo acqua e poi le coprivano con monticelli
di terra.
Poi i monelli aspettavano al riparo che
saltasse per dilatazione interna con un bum rumoroso a mò di bombetta,
schizzando la terra tutt'intorno.
Il Meschinello non ci provò mai perchè non
aveva i soldi per il carburo ( chi oggi l'ha più visto? ) che si acquistava di
nascosto dal rivenditore di biciclette.
Ma il divertimento più pericoloso
consisteva nel mettere ciottoli sui binari del tram, per vedere come li
stritolava. Se erano troppo grossi, il tranviere si fermava per non deragliare,
scendeva e li toglieva, imprecando contro i monellacci ben nascosti che
spiavano l'accaduto.
Anche Bianconeve ci provava, ma con i
sassolini che riusciva a trovare: e purtroppo il tram non si fermava mai e
nemmeno deragliava...
Un altro gioco bellissimo era quello con le
scatole vuote di legno della marmellata Quarenghi.
Tirandole avanti e indietro con doppio filo
di spago, i compagni di ringhiera si scambiavano da un balcone all'altro ,
sopra l'ampio cortile, giornalini (meravigliosi quelli dell'Uomo mascherato...
), biglie ed altro.
Ma Lazzarillo non possedeva niente da
barattare e se ne stava a guardare i più grandi.
Lui aveva in tasca solo un paio di biglie
di terracotta ( mica quelle di vetro screziate... ), rubate ai compagni
disattenti durante le sfide: ma non poteva farle vedere per non essere
scoperto. Tutti giochi di ripiego, come si vede, in un tempo in cui la gente
tirava la cinghia a causa della guerra.
Avvenne ( misteriosamente per Bianconeve )
che zio Ciccio dopo meno di un anno tornasse dal fronte, rioccupando il posto
di Dirigente Capo in Prefettura. Ma qui avvenne un fattaccio.
Un giorno sul divanetto del suo ufficio, si
mise a scopare una dipendente. Scoperto sul più bello da un usciere, il fatto
fece scalpore nell'ambiente.
Una mattina Bianconeve vide uscire di corsa
tutta aggrondata zia Fata Turchina, che sotto i portici prese a ombrellate la
malcapitata chiamandola puttana pubblicamente.
Rientrando poi tutta soddisfatta a casa.
Zio Ciccio per punizione venne trasferito
in una cittadina romagnola, ove ancor oggi il sommo Dante dorme sonni
tranquilli.
Il Meschinello però non seppe mai quando
Ciccio, scontata la pena, fosse stato reintegrato.
Intanto la città era diventata un inferno.
Bombe da tutte le parti.
La Fata Turchina allora si trasferì come
sfollata prima in un paese confinante, e poi per sicurezza in mezzo ai monti di
una valle a nord, proprio ad un tiro di schioppo dalla condotta medica del
fratello Papà Cattivone.
Si trattava di un paesino tipo Rio Bo ( che
d'ora in avanti chiameremo Poggio Ridente ), non per caso proprio quello ov'era
nata la terribile Pecoraia.
Il piccino e i parenti vi restarono
rifugiati fino alla fine della guerra.
In quel torno di anni gli si aprì un nuovo
mondo suggestivo. Un mondo di scoperte e di giochi. E là v'erano anche altri
sfollati, con bambini più o meno della stessa sua età.
Poggio Ridente era un paesino di cinquanta
abitanti, salito a settanta con gli sfollati.
Adagiato su un pianoro, a sud ammirava il
panorama sottostante, a nord s'inerpicava subito sui monti. Era diviso in due
contrade, quella di sotto e quella di sopra, poche case rustiche accorpate
ciascuna attorno ad una fontana pubblica.
L'acqua freschissima (chissà se potabile
secondo i moderni criteri sanitari...) veniva trasportata a mano nel secchiaio
di casa, ov'era bevuta con la casseruola di zinco.
D'estate le mosche cadevano nei secchi
pieni e venivano buttate via a colpi di mestolo, con gesto altamente
professionale... Le due vasche erano a doppia partitura: in quella inferiore si
lavavano i panni, in quella superiore si risciacquavano e il mattino e la sera
vi si abbeveravano le mucche e gli equini.
Nelle lunghe sere d'inverno gli abitanti
per risparmiare si riunivano nelle stalle al tepore animale, solo la luce di
una lanterna. Dal lato del fieno le donne e i bambini, vicino alle bestie gli
uomini; tutti seduti su sgabelli a tre gambe, fatti a mano dai contadini. Erano
i momenti più belli per i più piccini, gli occhi sgranati ad ascoltare discorsi
sentimentali allusivi che non capivano, ma soprattutto le storie di fantasmi e
di mostri.
Il racconto più terribile e terrorizzante
era quello che narrava di diavoli a custodia di un tesoro nascosto dietro una
edicola votiva diroccata a metà strada della valle. A mezzanotte, quando le donne
tornavano dal lanificio, i satanassi uscivano di colpo spaventandole a morte.
Le donne e le ragazze grandi ridevano divertite al racconto, ed accennavano ai
fantasmi chiamandoli per nome (Giacomo, Piero, Giovanni, ecc. ) come fossero
degli umani che le aspettassero al varco...
Bianconeve in quelle sere, al momento di
andare a letto, vedeva assassini dappertutto nelle ombre sinistre della notte,
e bisognava spingerlo a letto con le buone e le cattive.
Un mattino Bianconeve se ne andava
bighellonando poco fuori del paesello. D'un tratto sentì un rombo diffuso di
motori aerei. Ed ecco d'improvviso solcare il cielo un paio di caccia che
s'inseguivano l'un con l'altro volteggiando in capriole.
Un secco crepitio di mitragliatrici, senza
che lo spicchio di cielo azzurro incorniciato dalle montagne lasciasse
intravvedere bene nella sua pienezza il duello aereo. Pochi secondi, e gli
piovve addosso una gragnuola di bossoli bei grandi dal lucido colore ottone.
Lui avrebbe voluto raccogliere i preziosi cimeli, ma si ricordò degli
avvertimenti degli adulti: per nessun motivo prendere in mano oggetti di
guerra; potevano esserci munizioni inesplose o oggetti esplosivi in grado di
mutilare ( penne, bamboline, ecc. ). Rinunciò a malincuorre a quei trofei...
Certe sere poi vedeva in casa un via vai
sospettoso di adulti. Tutti intorno ad una Radiomarelli a valvole sintonizzata
sulle onde corte. Bum... bum...bum..., faceva tra fruscii ed alti e bassi: qui
radio Londra, vi parla Ruggero Orlando...
Appena i monelli facevano capannello
incuriositi, i grandi li cacciavano dalla stanza: via, via, andate via! Dai
loro discorsi e mezze parole, si capiva del divieto di ascoltare tale
emittente, a rischio di denunzia dei vicini...
Bianconeve ricorda solo i bollettini
ufficiali delle vittoriose armate italo-tedesche che abbattevano aerei e
affondavano navi del nemico a iosa. Tra i sorrisetti degli adulti sintonizzati
sull'EIAR.
Un altro giorno si era inoltrato con altri
grandicelli lungo una roggia, a caccia di farfalle e sassetti colorati. D'un
tratto sentì un gran vociare: tutti gli amichetti intorno spariti e dalle
finestre le fantesche a gridargli di rientrare subito. Pochi secondi, e con
stupore vide ai suoi piedi un grandinare di bossoli piovuti dal cielo.
Seconda parte
Un certo pomeriggio l'intero paesello entrò
di colpo in agitazione.
Tutte le donne si erano sparpagliate di
corsa per i campi e lungo i sentieri per avvisare i loro uomini.
I vecchi borbottavano: < I fascisti, il
rastrellamento! >.
Dall'alto del poggio si intravvedevano dei
puntolini neri sparpagliati arrancare sugli erti costoni, con rari spari
smorzati a cui in controcanto replicavano degli spari.
Una volta arrivati in paese, due di quei
ceffi ansanti chiesero a Bianconeve se avesse visto degli uomini passare.
Il bambino spaventato e senza nemmeno
rendersene conto indicò loro un sentiero sbagliato.
Che anche lui inconsciamente avesse
contribuito alla Resistenza?
Intanto nuovi giochi assorbivano il
piccino.
Quello più spettacolare, avvincente e di
squadra era il < ciàncol >, ossia la lippa.
Un corto bastoncello ben levigato, un fuso
di legno a due punte, un cerchio nello sterrato, e via!
< Ciàncol >, chiamava il battitore.
< Venga! > rispondeva l'avversario.
Volava il fuso nella corte, veniva
rilanciato a mano nel cerchio, se colpito al volo spedito il più lontano
possibile, le distanze misurate a < cannelle >, il punteggio che arrivava
fino a 200... Tra il baccano ed il tifo dei piccini ai lati, che tenevano il
conto, sbagliando regolarmente nella gazzarra della competizione.
Era bello perchè, alla sera, partecipavano
i grandi, ed i bambini imparando facevano solo da contorno. E questo fino al
primo buio.
D'estate poi si smontavano le catene dei
camini.
I grandicelli le legavano alla bici tutta
rotta e le trascinavano lungo le strade polverose ( non esisteva l'asfalto ),
lucidandole alla perfezione.
Il nostro pischello invece doveva
limitarsi, per la sua povertà, a tirarle a mano di corsa, ma senza i brillanti
risultati degli altri.
Ma Bianconeve a Poggio Ridente andava anche
a scuola, mica giocava soltanto...
Nel paesello c'era una classe unica per
tutte e cinque le elementari.
Una quindicina di scolari con una sola
Maestra.
Ed era già un miracolo.
Lui ricorda solo poche cose.
D'aver inzuppato nel calamaio la treccia
della bambina del banco avanti, con successivo grande casino generale...
Che una mattina la Fata Turchina era
entrata in classe parlottando con la Maestra ( poi a casa seppe che non si
potevano scrivere sul quadernetto a righe frasi tipo < le fragole maturano
in giugno >, < in autunno cadranno le pere >, ecc.
Perchè erano i messaggi di Radio Londra,
proibitissimi.
Il quadernetto venne bruciato, con suo
grande dispiacere perchè vi si era dedicato disegnando bei fiorellini...
Poi il gabinetto!
Un casotto di assi sospeso, fuori classe,
con al centro un buco da dove la cacca e la pipì cadevano nel prato, d'estate
tra mosche ed altro. La carta non esisteva, men che mai quella igienica che non
si sapeva nemmeno cosa fosse: forse pezzi di giornale, per chi li aveva.
Pericoloso sbagliare coi piedi, si
rischiava di precipitare di sotto...
Tutti i bambini che potevano dovevano
portare da casa un ceppo di legna per riscaldarsi con la stufa piazzata al
centro della classe.
Lazzarillo non ricorda di aver mai imparato
qualcosa.
I compiti a casa non esistevano. Per cui i
pomeriggi erano tutti liberi per i giochi e le esplorazioni.
Poggio Ridente di Sotto, dove abitava, era
tutto a ridosso della bella chiesetta, con a lato la canonica ed un orto
rigoglioso, vietatissimi a bambini e adulti.
Il Parroco la domenica faceva prediche
misteriose e minacciose, che però zio Ciccio diceva essere molto intelligenti
tenuto conto dello sperduto villaggio.
Perchè zio Ciccio dal capoluogo ogni
settimana saliva al paesello per riunirsi alla famiglia.
Portando carne ed altre provviste.
Aveva persino imparato ad andare in
bicicletta, lui che non vi era mai salito.
Arrivava tutto sudato, tra le feste dei
familiari per l'impresa superata.
Un mattino d'estate Bianconeve sentì in
casa che si sarebbe andati alla caverna dell'Eremita.
La cosa lo prese molto perchè Fata Turchina
era meridionale, senza dimestichezza con la montagna, e quindi per smuoverla
nell'avventura la cosa doveva essere importante.
Fatto sta che partirono di buona lena,
arrancando lungo la schiena di una montagna, con una guida del posto.
Lassù entrarono veramente in una grande
caverna, molto pulita e levigata, su due livelli di roccia.
In basso stalattiti, in alto un fuoco
spento per terra, un ricovero di pietra con pagliericcio di fieno.
Ma soprattutto una sagoma a forma di
piedone impressa nella roccia viva.
La guida sentenziò sorridendo
maliziosamente che fosse l'orma del diavolo, che tutte le sere tormentava il
sant'uomo con schiere di donne nude...
La cosa impressionò oltremodo Lazzarillo.
La comitiva cittadina incontrò anche
l'eremita che cercava di svignarsela, sui trent'anni, una lunga barba nera,
vesti da contadino, i piedi nudi in calzari a sandalo.
Non ci fu verso di cavargli una parola,
anzi sembrava preoccupato e seccato.
Al ritorno la guida ebbe a malignare che
forse era un finto eremita, rifugiatosi lassù per sfuggire all'arruolamento
forzoso nelle camicie nere.
Da allora non se ne seppe più nulla: anzi
no, una sola voce disse che l'avevano preso e l'eremita non c'era più.
Un paio di volte salì nel paesello anche
Papà Cattivone, che non si sa perchè si faceva chiamare zio da Bianconeve.
In verità il miserello fin dal tempo
dell'affido chiamava mamma la zia Fata Turchina, mentre non ricorda come
chiamasse zio Ciccio.
Fatto sta che per tale situazione
ingarbugliata, non seppe per anni riconoscere quale legame intercorresse tra
zii, suoceri, nipoti, nuore, cognati, cugini, ecc., in una beata ignoranza
parentale.
Comunque in quei tempi zio-Papà Cattivone (
il piccino non ne sapeva il perchè ) un paio di volte lo prese in disparte,
seduti sull'erba, offrendogli come un gran dono un uovo crudo da succhiare con
un buchino alla sommità.
Al meschinello l'uovo così viscido faceva
venir da vomitare e da allora non riuscì mai a sopportare la vista e del tuorlo
e dell'albume crudi.
Ancora: un paio di volte dormì anche con
zio-Papà Cattivone in letti separati. Ricorda di avergli chiesto come si
leggessero le ore della sveglia sul comò.
Lui glielo spiegò, ma Bianconeve non capì
niente...
In seguito gli raccontarono che zio-Papà
Cattivone si era a quei tempi a sua volta rifugiato in un caseggiato diroccato
fuori dal paese ove faceva il medico, per sfuggire alle bombe.
Quando cadevano, tutto impaurito si
nascondeva in vicine grotte di roccia.
La notte, accendendo la luce in camera da
letto, vedeva sul soffitto, per terra e sulle pareti nere processioni di
scarafaggi in movimento.
Bianconeve ricorda che d'inverno il
freddo era così intenso da soffrire costantemente di geloni alle mani e ai
piedi.
Le dita si gonfiavano arrossandosi con un
prurito insopportabile, diventando poi viola.
Non poteva grattarsi nè scaldarle al fuoco
perchè era peggio.
Non esistevano caloriferi allora, ma solo
un camino in cucina e nelle camere da letto lillipuziane si usava la <
monaca > con lo < scaldino >, quest'ultimo un bracere aperto a carboni
ardenti che si metteva in letto sotto le coperte prima di andare a dormire.
Però avanti d'infilarsi in letto, bisognava
aprire un momento le finestre per via dell'ossido di carbonio.
Il mattino i vetri delle camerette erano
tutti istoriati dal gelo, con stupende figure geometriche cristalline, per via
dell'escursione termica.
A quei tempi diffusissime tra i bambini
erano le tonsilliti e la difterite ( la penicillina prese piede in loco solo
nel 1946 ), oltre alle altre malattie esantematiche dell'infanzia.
Di grup ( termine dialettale locale della
difterite ) ebbe a morire la figlioletta di un medico vicino di condotta,
collega di Papà Cattivone: con grande scalpore in paese.
Altre malattie correnti in contrada erano
la scabbia, la tbc, il tetano, il morbillo, la varicella, gli orecchioni, la
pertosse, la rosolia, la scarlattina, il tifo.
Pulci e pidocchi erano di rigore. I bambini
avevano un alto tasso di mortalità.
La lurida Pecoraia aveva una sorellina
minore che abitava a Poggio Ridente di sotto, poco più grande di Bianconeve.
Era figlia illegittima di madre vedova, e
come tale vessata dalla lercia Pecoraia che si sentiva orgogliosamente
legittimata e glielo faceva pesare.
La Lercia aveva anche un fratello maggiore,
in famiglia con la madre, appena tornato dalla guerra per i benfici di unico
maschio di sostentamento.
Lavorava nella fabbrica a valle, ma
spendeva tutti i soldi della paga da un'ostessa vicina di casa, di cui si
diceva fosse l'amante accalappiato.
Quand'era mezzo di vino pare che picchiasse
in famiglia, persino la madre.
Trattò sempre bene e con rispetto
Bianconeve.
Anzi una volta gli fece uno zufolo perfetto
con un tralcio di siepe.
La vigliacca Pecoraia aveva altre due
sorelle.
Una a servizio in città e l'altra che in
paese se la faceva per fame con tedeschi e fascisti.
Subito dopo la guerra le rasarono la testa
e lei per nascondere la vergogna per qualche mese indossò un foulard annodato.
Restò incinta, partorì, andò a servizio in
quel di Milano.
Aveva una bella voce da mezzosoprano e
vinse anche un concorso alla radio per cantanti esordienti.
Era una madre molto buona.
Avvenne che un mattino di novembre il
casolare di Bianconeve entrasse in gran subbuglio.
Pentoloni d'acqua bollente sul fuoco,
tavolacci in cucina, le donne in attesa alquanto nervose ed agitate.
Poi nell'aia si materializzò un individuo
piccoletto, armato di coltelli fino ai denti: era il signor norcino, accolto
con deferenza.
Si infilò in porcilaia, e d'un tratto un
urlo belluino a fendere l'aria.
Il tempo di raccogliere il sangue caldo in
un secchio, e il maiale di 140 chili venne trasportato in cucina.
Raschiato ben bene con l'acqua bollente,
tutto il giorno se ne andò tra l'andirivieni frettoloso dei lavoranti.
La famiglia cantava soddisfatta per tutto
quel ben di Dio, tra carne, salami e ciccioli di maiale ( le grépole ).
In quella allegria generale solo Bianconeve
se ne stava inorridito in disparte.
E anche offeso: perchè durante la
lavorazione l'avevano spedito a prendere lo
< sgularice > ( nettaorecchie ) per
il maiale da un vicino, il quale lo mandò da un altro avendoglielo prestato, e
questi da un altro ancora e così via, per tutto il paese.
Tornato senza l'arnese, lo accolsero delle
gran risate, che l'ingenuo Lazzarillo non comprese...
La matriarca della famiglia, come già
detto, era una vedova che a Biancofiore pareva una centenaria, con veste lunga,
grembiule nero e zoccoli ( i < sòpéi > ).
Il cagnaccio enorme alla catena obbediva
solo a lei, era sempre inferocito ed affamato.
Bisognava girargli alla larga per non avere
guai, soprattutto per evitare la , di cui si favoleggiava.
In paese si camminava tutti coi sòpei: gli
scarponi li usavano solo i bascaioli.
La legna, il bestiame e i campi erano le
principali fonti di sostentamento.
I carretti erano lunghi e senza sponde, con
corde intrecciate a contenimento, con una stanga centrale prolungabile.
Le ruote davanti venivano frenate con
blocchetti di legno azionati a mano.
I carretti di legna erano sempre
sovraccarichi all'inverosimile.
Un giorno un povero cavallo venne frustato
senza pietà dal carrettiere per fargli superare un dislivello.
Cadde con le zampe davanti piegate e
insanguinate, poi a scudisciaste in uno sforzo immane riuscì a farcela.
A Bianconeve si rivoltarono le budella per
tanta violenza e crudeltà.
Ma quelli erano i tempi, dove anche gli
uomini vivevano come bestie abbrutiti dalla fatica e dal bisogno.
Terza parte
Cento metri sotto il paesello abitava un
bambino coetaneo di Bianconeve, di nome Brunetto.
In una casa rurale male in arnese, vicino
al mulino.
Un mattino in nostro Lazzarillo andò a
trovarlo, divenendo subito amici.
Il ragazzino in segno di simpatia prese una
patata cruda, la sbucciò, gliene offrì una fetta, mangiandosi il resto.
Bianconeve per imitazione addentò la
patata, ma la risputò subito schifato.
L' amichetto se ne meravigliò: era tanta la
fame a quei tempi da ridursi a mangiare anche le patate crude!
Si diceva in giro che suo padre per la
stanchezza nei campi e nei boschi (o forse per il vino…) andasse a letto
direttamente con gli scarponi senza nemmeno toglierseli.
Brunetto aveva un sorella di poco più
grande, lentigginosa e dalla treccia rossa, di cui subito Bianconeve s'innamorò.
Ma lei faceva le viste di niente, forse
perchè lui era troppo piccolo o per la presunta distanza sociale.
Fatto sta che lui la seguiva ovunque senza
parere, come un cavalier servente.
Poi un bel giorno lei sparì: l'avevano
mandata a servizio in Brianza.
Una bocca di meno da sfamare.
Bianconeve rimase di sasso, soffrendo
intense pene d'amore.
Ma neanche un mese, e una nuova fiamma
prese il suo posto...
La sorella minore della Lercia, di cui s’è
già parlato, soffriva perennemente di grup alla gola per il freddo intenso.
A volte sembrava che con la tosse volesse
volarsene via anche l'anima.
Prima di andare a letto recitava sempre, in
cucina e inginocchiata, la preghiera della sera, che così rimase in mente al
pischelletto:
" Fammi Gesù diletto
dormire sul tuo petto,
giorno e notte con te stia
riposando l'anima mia.
Stammi sempre intorno
finchè ritorna il giorno.
Al buon cuor del mio Gesù
che mi ha redento
il cuor consacro
e mi addormento ".
Si è saputo poi che forse era una preghiera
fin dell'ottocento.
Prima che il figlio tornasse dalla guerra,
la matriarca vedova guardava per ore impietrita fuor dal finestrino della
cucina per vedere se per caso suo figlio soldato comparisse nel turbinio della
neve.
Trattò sempre bene e con una certa
deferenza il piccolo miserello.
Una volta mentre gli raccontava una fiaba
le sfuggì la parola < amante >, che subito ritrattò dicendo di essersi
confusa.
Bianconeve non ne capì il significato,
restando però colpito dal fatto.
In un vicino paesino a valle, dove esisteva
una minuscola centrale elettrica, abitava Otto , un militare tedesco di basso
grado.
Otto era buono.
Alle bambine di primina diceva < forza,
il grembiulino > e gettava loro dal secondo piano delle caramelle.
Ad una di esse, dai capelli biondi quasi
chiari, diceva che le ricordava la sua figlioletta lasciata in Patria.
Le regalò addirittura un bella bambolina,
la quale divenne l'invidia di tutte le amichette.
Un dono tanto raro in quei tempi di magra
che la piccola beneficata la custodiva gelosamente, facendola vedere solo di
tanto in tanto alle altre bambine.
Il giorno innanzi i periodici bombardamenti
tedeschi, Otto avvertiva sempre i paesani con un < raus > perentorio a
che si tenessero lontani.
Ma gli Stukas sbagliavano sempre la mira
sia perchè la centrale aveva il tetto mimetizzato in grigioverde sia perchè era
riparata in una gola tra le montagne.
Verso la fine della guerra venne preso dai
partigiani e fucilato.
A molti dispiacque.
Rimase in casa solo il suo libretto di
identificazione militare, ov'era scritto che era delle SS.
La mamma-zia Fata Turchina si faceva
aiutare nelle faccende domestiche dalla locataria contadina, di una certa età.
Un pomeriggio essa stava mescolando in una
ciotola degli ingredienti per una torta paesana.
Ad un certo punto disse in dialetto alla
Fata Turchina : " Mi devi scusare se ho il raffreddore e se qualche goccia
mi cola dal naso e cade nell'impasto... ".
Ne sortì un pandemonio e quella volta la
torta finì alle galline.
Intanto la preparazione religiosa di
Bianconeve era al di sotto dello zero.
Nessuno che in casa pregasse o parlasse di
Dio, i contadini bestemmiavano da matti, ma di domenica la chiesetta era
strapiena.
Talvolta si celebravano anche le rogazioni
per impetrare la pioggia: processioni con baldacchino, turibolo e prete in
testa.
Intanto la sorellina minore della vigliacca
Pecoraia, quella illegittima come Bianconeve, la sera continuava a recitare le
orazioni al buon Dio.
Lui che la sentiva sempre ciaccolare ne
ricordava anche questa:
" Angioletto del buon Dio
cosa fai vicino a me?
Sono l'Angel del Signore,
son l'amico del tuo cuore.
Quando dormi, quando vegli
sempre sempre son con te! ".
Accadde verso mezzogiorno.
Da sud a nord gli Stukas cominciarono a
bombardare in picchiata la ferriera della valle, convertita in produzione di
guerra. Inutilmente: sfiorando in ripresa Poggio Ridente.
La comunità allora, come al solito, cercò
rifugio nella grotta naturale a piè del monte della contrada di Sopra.
Un bambino di sei-sette anni trascinava per
mano la sorellina piccolina piccolina, che cadendo per la fretta si sbucciò le
ginocchia, ma non pianse perchè non c'era tempo.
Le sirene a valle lanciavano il lugubre
allarme.
Nella caverna una mamma teneva due dita in
bocca alla sua neonata, abbassandole la lingua perchè lo spostamento d'aria non
la soffocasse.
Gli scoppi erano sempre più ravvicinati,
tremendi e spaventosi.
Un adulto, di circa trent'anni, famoso
bestemmiatore del paesino, ad un certo punto si mangiò ingoiandolo un santino (
immaginetta sacra ) invocando pietà e perdono.
Tra lo sgomento di Bianconeve impietrito
dal terrore ( poi con l'età matura, anzi maturissima, comprese che chi
bestemmia a torto o a ragione è persona che cerca Dio più degli altri, pur
arrabbiatissima per il suo eterno silenzio ).
Quando ne aveva occasione il miserello
andava a visitare di straforo la fornace di un paesino vicino.
Dall'alto i manovali gettavano le pietre
della cava in un grosso camino verticale, ove cuocevano nella fornace e ne
uscivano in blocchi asciutti di calce viva, che poi i muratori lavoravano
spegnendola con l'acqua in ampi cerchi bianchi.
La calce spruzzata nei pollai serviva anche
per bonificarli dai parassiti.
Le donne, quando il forno veniva spento, ci
portavano il pane, i dolci , ecc. per farli cuocere al residuo calore.
Bianconeve, imitando i ragazzi grandi,
accendeva a brace certi bastoncini di legno delle siepi, fumandoli a mò di
sigaretta.
Le more, grosse e succose, erano
dappertutto: i monelli ne facevano scorpacciate, la bocca e le mani blu
scuro...
Era però proibito mangiare la frutta verde,
perché i grandi dicevano che faceva venire il tifo e si moriva.
Accanto dove abitava, c'era un'osteria
nella stessa cucina dei trattori ( un tavolaccio, due panche... ) dove i
paesani giocavano a carte, alla proibitissima morra, si ubriacavano e cantavano
fino a notte fonda, sperperando i pochi soldi che avevano.
Le madri di famiglia alla fine ottennero
dalla fabbrica a valle di poter riscuotere personalmente la < quindicina
>, prima che i congiunti la dissipassero riducendo la famiglia alla fame.
L'osteria era sopra il piano terra, con un
balconaccio di legno.
Una notte il cugino grande sfidò Bianconeve
a passare di corsa sotto un getto d'acqua che a intervalli scendeva dall'alto.
Naturalmente perse, bagnandosi tutto, tra
le risate di scherno di tutti i monelli.
S'avvide poi, su loro indicazione, che il
cielo era sereno e che l'acqua era la pipì degli ubriaconi che se ne liberavano
facendola sulla corte attraverso la balaustra.
Intanto la sorellina buona della puttana
Pecoraia continuava le sue preghiere serali borbottando a voce bassa.
Bianconeve ricorda anche questa:
" Io vado a letto
con l'Angelo perfetto,
con l'Angelo di Dio,
con san Bartolomio,
con la Madòna benedetta,
con santa Elisabetta,
coi dodici Apostoli,
coi quattro Evangelisti.
Tutte le sere
se questa preghiera
io dirò
cattiva morte non farò ".
Un bel giorno, di primo mattino, zia-mamma
Fata Turchina caricò tutto su un carretto e coi ragazzini se ne partì. Da
sfollati se ne andarono ad abitare nel paese capoluogo a valle, dove il
fratello faceva il medico.
Col tempo Bianconeve realizzò che c'era
stato l'armistizio dell'8 settembre 1943, con le speranze sulla fine della
guerra.
Senonchè i tedeschi continuarono a
bombardare dall'alto e la ferriera e la centrale elettrica poco distante, senza
mai centrarle a causa delle montagne troppo ravvicinate.
Di quel periodo e fino al maggio 1945 (
fine del conflitto mondiale in Italia ) il monelletto ricorda solo poche cose.
" Pippo ", che di notte ronzava
sul paese e i vetri delle finestre oscurati con la carta-zucchero azzurra per
non farsi individuare.
Tutti dicevano che era un pericolo, ma a
lui piaceva tanto quel puntolino vagante lassù in cielo.
Le prime vere scarpe ( di cartone ), con la
punta ed il tacco rinforzati da lunette di ferro inchiodate: per ridurne il
consumo.
Le < baracche degli zingari >, in
realtà prefabbricati per la povera gente senza casa per via della guerra.
La colonna motorizzata dei tedeschi che
attraversò il paese diretta al nord.
Si diceva che fosse intervenuto un patto di
reciproca non aggressione: loro non avrebbero fatto razzie e rastrellamenti, i
partigiani li avrebbero fatti passare.
Comunque a maggio del 1945 zio Ciccio se ne
partì con la famiglia in biroccio per la città capoluogo ove lavorava.
Era un mattino, che vide il calesse
prendere il largo, con il moccioso Bianconeve a rincorrerlo urlando e piangendo
< Mamma, mamma...! >. Da quel giorno la Fata Turchina divenne solo zia e
zio-Papà Cattivone solo papà.
Iniziò da allora la tragedia esistenziale
del nostro Lazzarillo di provincia, caduto nelle grinfie della kapò Pecoraia.
Accanto al ragazzino si era mossa parte
della Storia. Ora la storia diventava lui stesso.
La lercia Pecoraia lo prese per un braccio,
livida di rabbia, e lo trascinò in casa, quella in cui viveva con Papà
Cattivone.
Con un ceffone mise subito in chiaro chi
era l'animale dominante.
Mentre il suo amante in quel mattino era
per visite, gli indicò gli spazi in cui gli era possibile muoversi: la cucina,
il letto, la scrivania del padre, i servizi igienici.
E subito lo mise a giorno del suo ruolo: il
servo di casa.
Per prima cosa lo mandò a fare la spesa.
Uno sportone del tempo, a fatica trascinata
per la via.
La gente da allora lo vide sempre
affacendato in negozi, e non diceva nulla.
Gli amici monelli sparirono dalla sua
cerchia e lui passava ore e ore da solo fantasticando sulle poche pubblicazioni
in casa.
Ad esempio mandò a memoria la storia della
Madonna di Pompei e del suo servo, beato Bartolo Longo.
In un cassone trovò i resti delle vestigia
fasciste: il fez, la divisa nera, gli stivaloni, che il proprietario si ostinò
sempre a dire di non aver mai indossato.
E gli tornò alla mente l'episodio, narrato
in famiglia da zio Ciccio, sullo zio Piero, ostinato antifascista e pertanto
discriminato sul lavoro e sempre a rischio di licenziamento.
Finché stufo delle angherie prese la
tessera del PNF e vestito di tutto punto con la divisa fascista passeggiò
pavoneggiandosi sotto i portici della città.
Era proprio l'8 settembre 1943: zio Ciccio
lo prese di forza e lo sottrasse al pericolo di linciaggio...
Da leggere v'era poco altro: qualcosa sul
classico, un pamphlet su una banca locale fallita, risicate pubblicazioni
d'arte.
Si mangiava nella stessa stanza
dell'ambulatorio medico.
Alla sera sempre nello stesso locale si
apprestava il divano-letto per Papà Cattivone.
Il miserello dormiva con la vigliacca
Pecoraia nel locale comunicante, in letti separati.
A fianco del fabbricato scorreva una roggia
putrida: uno dei compiti di Bianconeve era di annegare le pantegane catturate
in casa sotto una fontanella esterna al caseggiato.
Non passava giorno che non gli arrivasse
una sberla educativa, tanto per non perdere tempo in spiegazioni.
La Lercia era piccola ( 1,60 di altezza ),
tracagnotta, brutta, coi bottarelli (= polpacci ) da montanara, 3^ elementare,
povera, cattiva di animo.
In casa trattava Papà Cattivone in malo
modo, e lui come un agnellino le correva dietro.
In maturità Bianconeve si convinse che il
padre soffrisse della sindrome masochista, e che gli piacesse essere
maltrattato.
Non c'era altra spiegazione.
Un giorno a tavola gli cadde un boccone
sulla camicia: < sporcaccione > gli inveì la Pecoraia, e lui tutto mogio
mogio lo recuperò e se lo mangiò, con sguardo sottomesso.
La domenica pomeriggio stava della ore con
lei dietro le persiane socchiuse, appoggiati coi gomiti al davanzale,
parlottando e sparlando di chi passava nella via.
Quarta parte
Nel 1945, a fine guerra, tornò un reduce,
vicino di casa.
Malandato poveretto, minato dalla malaria e
dalla tbc.
La sera si andava da lui per sentire le sue
storie di guerra.
Mondi meravigliosi, terre lontane,
prigionia in India, nostalgia della Patria, il ritorno.
Durante il giorno lo si vedeva spesso,
sofferente, dietro le tendine della finestra.
Poi d'un tratto non lo si vide più: era
andato a riposare in pace nel cimitero del paese.
Il sadismo della Pecoraia non aveva limiti.
Un pomeriggio gli si presentò con un uovo
crudo in mano.
Praticò con l'ago della lana un buchetto in
cima e gli ordinò di berlo.
Bianconeve senza i nani a protezione ebbe
un bel dire che l'uovo crudo gli faceva schifo: la cosa sembrò oltremodo
interessare la fetentona.
Al primo assaggio egli protestò che era
andato a male, come effettivamente era.
Macchè, una gragnuola di sberle e pugni,
preso per i capelli e faccia in su dovette berlo a forza.
Si rifugiò di corsa al gabinetto, vomitando
l'anima.
L'odio ed il terrore furono per sempre suoi
compagni di viaggio.
Ma, direte voi, perchè non lo diceva al
padre!
Si fa presto a dirlo.
Tralasciando l'età, egli rimaneva poi tutto
il giorno nelle grinfie della satanassa, dimenticato dal genitore.
Il rapporto poggiava ormai sul binomio
persecutrice-vittima, in tempi in cui non esistevano altri familiari a
soccorso, i vicini si facevano i fatti loro, il telefono azzurro ancora da
inventare.
Durante la guerra si narrava che la
popolazione locale si fosse impegnata a riedificare una chiesetta diroccata in
cambio della protezione della Madonna contro i bombardamenti.
Effettivamentie questi ultimi non ebbero
mai esito devastante e le bombe sganciate andavano regolarmente a cadere in una
località distante e deserta, in seguito chiamata < bumbì > per i
residuati bellici accumulatisi.
Fatto sta che finita la guerra, il voto
venne sciolto, il Santuario costruito e denominato Madonna della Rocca.
I festeggiamenti durarono tre giorni, e
così per tanti anni di seguito.
Da mane a sera musica sacra a tutto volume
( un incubo l' < Ave Maria > di Schubert... ), verdi archi trionfali,
processioni, Messe, lotterie con ricchi premi.
Balli e balere niente, per carità, tuonava
il Parroco.
Intanto Papà Cattivone, in luogo del
biroccio a cavallo ( chissà dove li tenesse... ), ebbe a comprarsi nel 1948 una
Fiat millecento blu, la prima e unica automobile in paese.
Per andare a fare le visite nell'ampia
condotta.
Un giorno nel fare una curva tagliò di
netto la gamba di una ragazza a bordo di una Vespa ( a quei tempi le donne,
avvinghiate al guidatore, sedevano sul seggiolino posteriore con le gambe al
vento entrambe esposte a dx o sx ).
Papà Cattivone per risparmiare aveva
sottoscritto una polizza R.C. bassa, che non coprì l'infortunio.
Perse la causa, con la Pecoraia portò più
volte l'infortunata al Rizzoli di Bologna per la protesi, spese una fortuna per
il risarcimento.
Destino volle che la poveretta morisse per
altre cause successivamente, senza godere dei soldi.
In quegli anni ogni tanto Papà Cattivone
comprava la domenica il Corriere dei Piccoli, con le magnifiche avventure del
signor Bonaventura.
Ma la disattenzione lo colpiva per lo più,
fino a dimenticarsene del tutto, con gran disappunto di Lazzarillo dai
calzoncini corti.
Agli inizi del 1946 comparve per la prima
volta il pane bianco sulla tavola.
Sembrava incredibile a vedersi, così
gonfio, così morbido, così candido.
Bianconeve senza i nani fu mandato anche a
scuola: privata, forse per non fare emergere la sua posizione di illegittimo, a
scorno del padre ( ma in paese lo sapevano già da anni..).
Il miserello cadde dalla padella nella
brace.
Il maestro incaricato era invero buono e
bravo.
Ma insegnando nelle scuole pubbliche non
aveva tempo a disposizione.
Pertanto l'affidò alle cure della moglie,
donna stizzosa e manesca, ex crocerossina, resa insensibile dalla sterilità del
grembo.
Fatto sta che costei pretendeva di far
studiare il ragazzino a suon di scapaccioni. In aggiunta a quelli di casa.
Furono mesi di calvario, al quale
Bianconeve cercò di porre rimedio non andando più dalla picchiatrice,
rifugiandosi in un androne del paese buio e sporco, pieno di pulci, nel freddo
dell'inverno.
Dopo un paio di settimane, su segnalazione
dei paesani, suo padre di persona venne a sincerarsene sul posto.
Va da sè che la razione di botte raddoppiò
da parte della serva padrona ( si deve dire a onor del vero che Papà Cattivone
non lo toccò mai con un dito nè allora nè mai ): ma si ottenne almeno il cambio
dell'insegnante.
La nuova maestra, nubile con madre a
carico, fu donna esemplare e il profitto negli studi ebbe un'impennata.
Nel contempo il genitore comprò una nuova
casa e si traslocò.
Il paese era attraversato da un fiume
importante, con un affluente che scendeva dalle parti di Poggio Ridente, di
poca portata.
Sul greto di questo rivo svolazzavano a
centinaia belle farfalle
d'ogni tipo.
Durante una piena, un bimbetto che vi si
era avventurato per prenderle fu travolto dalle acque ed annegò.
Il fatto fece enorme scalpore tra la
popolazione..
Papà Cattivone e zia Fata Turchina non
erano fratelli di sangue, ma fratellastri.
Infatti alla morte della moglie ( madre del
primo ), il nonno colonnello sposò la di lei sorella, secondo un costume
meridionale del tempo a solidarietà familiare, dalla quale nacque Fata
Turchina.
Un'estate zia Fata Turchina venne a trovare
per qualche giorno il fratello medico nella nuova casa, una villa con otto
stanze, orto e giardino.
Furono momenti molto belli per Bianconeve,
che le saltava al collo con affetto.
Mentre la perfida Pecoraia schiumava di
rabbia.
Siccome la zia era ben messa, con un bel
< davanzale > davanti, Lazzarillo ingenuamente le chiese se le poppe
fossero piene di latte, tra le risate generali.
Tante risate anche quando lui si presentò
vestito con gli abiti larghi della zia...
Ricorda che le disse < quando sarò
grande ti comprerò tanti bei vestiti! >.
Ma accadde un fatto strano,
Un giorno la zia fu colta da mal di pancia
e diarrea a non finire.
La sentì dire che era stata avvelenata
dalla sporca Pecoraia, che le avrebbe somministrato di nascosto la < silappa
>, potente purga per cavalli.
Fatto sta che la Fata Turchina se ne fuggì
alla veloce nè più ritornò.
E per Bianconeve furono guai peggiori,
sottoposto a male sevizie dalla vendicativa servaccia.
Partita zia Fata Turchina, la vita si fece
subito dura.
Un giorno la serva gli disse di portargli
il vaso del riso.
Non si sa come, gli cadde per terra e tutti
i chicchi si sparpagliarono intorno. Divenne di brace dallo spavento.
La lurida Pecoraia lo assalì a calci e
pugni, poi preso un ombrello glielo fracassò sul groppone a forza di colpi.
Bianconeve si mise dolorante e senza una
lacrima a raccogliere i grani uno per uno. La disgraziata inveì: " Tu
giochi, bestia! > e rafforzò la dose del pestaggio.
La sera i lividi in volto vennero
giustificati all'amante menefreghista con un < non sa dove mette i piedi ed
è caduto >.
Da grande Bianconeve ebbe a pensare che
forse i due volevano disfarsi di lui, chè tanto ci avrebbe pensato poi il padre
ufficiale sanitario a passare l'evento per incidente fortuito. Senza esami necroscopici
( a quei tempi poi... ).
Il miserello viveva isolato in un mondo di
fantasia tutto suo.
Una volta scoperse per caso alla radio che
esisteva il gioco del calcio: dalla radiocronica in diretta della nazionale di
cui però non capì nulla non conoscendo le regole.
Un mattino, mentre giocava facendo rotolare
un cerchione di bicicletta da una discesina del paese, se lo fece sfuggire di
mano e quello andò ad impigliarsi tra le zampe anteriori di un cavallo di
passaggio, che se le ruppe.
Bianconeve fuggì a gambe levate, ma il
carrettiere indagò e si fece risarcire dal padre.
Miracolosamente non subì punizioni.
La sera d'inverno la moglie del reduce
defunto veniva a casa di Lazzarillo con la figlia undicenne Lucia. Per
riscaldarsi alla stufa.
La ragazzina aveva preso l'abitudine di
uscire subito e più volte con Bianconeve accampando cento scuse.
Appena fuori dalla porta lo sbaciucchiava e
frugava, tra lo stupore ingenuo del bambino. Quando lui lo disse in famiglia,
la Lucia fu cacciata a letto senza cena e non la si vide più.
Una sera la serva con una cugina portò il
ragazzino a vedere un film di cappa e spada nel cinemetto del paese:
divertimento eccezionale nell'immediato dopoguerra.
Fu tale lo spavento alla vista delle
torture inflitte ( strappavano le unghie ad un prigioniero... ) che scivolò a
terra mollando la pipì.
Avvenne un giorno che il miserello avesse
commesso una grave mancanza, a sentire l'aguzzina.
La quale, dopo averlo al solito preso a
pugni e a calci, gli cozzò a due mani il capo contro la parete più e più volte,
schiumando di rabbia fino a lasciarlo rintronato.
Lo chiuse poi a chiave in cantina per tutto
il pomeriggio, fino a sera, al buio. Prima di cena lo liberò, come se nulla
fosse accaduto, nè il genitore si preoccupò di quelle fonde occhiaie blu.
Ci sono stati dei misteri che neppure da
grande Bianconeve seppe mai spiegarsi.
Uno di questi, che la serva Pecoraia si
rivolgesse a Papà Cattivone dandogli sempre del lei.
Mentre lui le dava del tu.
Mai una volta che si fosse sbagliata in presenza
del piccolo.
Un altro aspetto fu che non notò mai un
moto di affettuosità sentimentale tra i due, che so un abbraccio, un bacio, una
carezza.
E infine che in macchina la serva sedesse
sempre sul sedile posteriore, e Bianconeve sempre davanti, come a salvare le
distanze relazionali, almeno formali.
Un Capodanno padre e figlio andarono a
festeggiare in città a casa della zia Fata Turchina.
La carogna Pecoraia rimase in macchina al
freddo dell'inverno dal mattino al pomeriggio inoltrato: quando tornarono lei
aveva le labbra violace e lo sguardo violento.
Una forza d'animo eccezionale , da badessa
conventuale medievale...
Un'estate la Pecoraia litigò col padrone,
rifugiandosi al paesello natio ( Poggio Ridente ).
L'amante la rincorse dopo un paio i giorni,
regalandole denaro e gioielli ( orologio, collana e anello di brillanti ) che
non mise mai alla presenza di Bianconeve.
Papà Cattivone con figlio e serva soleva a
settembre passare le acque a Montecatini Terme.
Un anno, al ritorno ed alla stazione in attesa
della coincidenza del treno, la vigliacca Pecoraia prese in disparte il povero
disgraziato di Lazzarillo minacciandolo: < A casa faremo i conti! >.
Lui non sapeva il perchè, ma una volta
rientrati la guerra ebbe inizio.
Bianconeve dall'ottobre a dicembre si
rifugiò in camera sua ( senza caloriferi ) in volontario isolamento, coprendosi
di stracci per il freddo, scendendo a mangiare solo a pranzo e cena, senza mai
proferire parola.
A Natale la delinquente stupita dovette
cedere e rivolgergli la parola, firmando una tregua.
Il poverello non ricorda più come ciò fosse
potuto accadere senza andare a scuola.
Tanto violento fu lo stress subito.
Probabilmente l'avevano dichiarato malato.
Avvenne che un pomeriggio il povero
Bianconeve commettesse una grave mancanza.
Quale non si sa, ma la perfida Pecoraia la
ritenne degna di nota.
E minacciosamente: < Lo dirò a tuo
padre, così ti ammazzerà di botte >.
Il miserello ormai non ne poteva più.
Oltre a quelle della servaccia, ora anche
Papà Cattivone ci avrebbe messo del suo.
E prese la gran decisione, una volte per
tutte.
Verso sera, prima di uscire a prendere il
latte ( mansione da sempre di sua competenza ), si tracannò una buona dose di
barbiturici, lasciati incautamente incustoditi nell'armadietto dell'ambulatorio
casalingo, prese la bottiglia vuota del latte e s'incamminò verso la ferrovia
invece che dai contadini.
Si svegliò il mattino in ospedale, raccolto
da sotto un cespuglio.
La lavanda gastrica malauguratamente lo
salvò.
Lo misero in Collegio in altra città ben
distante ed ivi abbandonato.
Fu la sua salvezza, almeno dalle percosse.
La prima estate utile, durante le vacanze,
la Lercia tentò nuovamente di aggredirlo.
Ma Bianconeve, ormai cresciutello e
fisicamente rinforzato, l'abbrancò e fece per annegarla nella vasca dell'orto
piena d'acqua.
La fetentona riuscì a divincolarsi e a
darsela a gambe.
Da allora non lo toccò più con un dito, ma
stese la sua subdola rete psicologica a rovinarlo verbalmente presso l'amante.
E qui si chiude definitivamente la historia
dell'infanzia di Bianconeve senza i nani a soccorso, misero Lazzarillo di uno
sperduto paesino di provincia.
******************
Appendice:
Dopo tremendi maltrattamenti psicologici
sostanziatisi in privazioni materiali, il giovane Lazzarillo se ne fuggì di
casa.
Una settimana da randagio nei boschi,
dormiente sulle panchine pubbliche della città, ospite della mensa dei poveri e
dei dormitori pubblici, venditore di automobili, agente assicurativo, prefetto
in un orfanatrofio, laureato, diplomatico fallito, primo in un concorso
pubblico per esami su quattrocento candidati, sindacalista, portaborse
politico, una decina di altri lavori...
Ma questa è un'altra storia.
La novelletta si rivolge a tutti i lettori
sollecitandone lo sdegno, a che simili violenze non abbiano mai più a ripetersi
su vittime innocenti.
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