lunedì 31 luglio 2017

Piero Partiti
La peggior cosa che può capitare a uno che scrive poesia, è proprio quella di dire a se stesso: "ora scrivo una poesia". Come se si potesse comandare quel delicato filo che lega il poeta alla poesia, capovolgere l'essenza stessa della poesia. Ah, mettetevelo in testa una volta per tutti. Il poeta non scrive poesia, ma è la poesia ad usare il poeta per essere scritta. Ah, be', non tutti capiranno questo. Lo so. Non ci si mette a tavolino a scrivere, che so, "L'infinito", misurando sillabe, ritmo, cercando le parole giuste... Si è sovrastati dalle parole che arrivano... si abbandona la mente e si segue l'irrazionale puro, si lasciano le immagini farsi parola... si, proprio così: parola. Ma quanti poetucoli da concorso della "Sagra del maialino" sanno, santo cielo, la radice, l'etimologia, il significato della parola poesia? Ecco, non vedo molte mani alzate, appunto... anche perché, chi lo conosce il greco antico in questo tempo di condivisione sui social? (Per cortesia, non consultate wikipedia....). "Poieis" cioè creazione, cioè creare. Ovvero parlare con la lingua di Dio. Niente di più, ma anche niente di meno. "En archè epoiesen 'o Theos ton ouranon kaj ten gen"... In principio Dio creò il cielo e la terra... epoiesen... (scusate la traslitterazione non troppo accurata....). Pretendo molto? Si. Pretendo di riportare la poesia alla sua funzione essenziale: la creazione. E di essere forse, l'unico modo possibile, di spiegare, cercare almeno di farlo, il dolore. Ovvero la poesia come unico modo per giungere all'infinito, all'essenza delle cose. Quindi, poetucoli del "volemose bene", vedete di cambiar mestiere. A ben poca cosa servite, se non a uccidere la poesia. L'infinito è cosa seria. E se è esistito, se esiste un Dio che ha creato tutto, ebbene, il suo è stato un atto di poesia.

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